di Sonny

"Hey man, how you doing?" Inizia così il terzo incontro con James Franco nel giro di pochi mesi. Sabato 9 febbraio, destinazione "Gay Town", Karl-Marx-Allee, Berlino. Il freddo mi taglia il volto, dopo la corsa in taxi dall'albergo. Strana sensazione: prima volta in città, prima volta ad una mostra di questo tipo senza sapere cosa aspettarsi, oltre la febbrile creatività di James. Arrivo in anticipo, sono le 18:30 e l'inaugurazione è prevista un'ora dopo, ma gli spazi Peres Project sono già aperti al pubblico. Mi guardo un po' intorno, perdendomi nelle vetrine del magazzino, che già dall'esterno espongono molte delle stampe su coperte create per l'installazione. L'idea è che "Gay Town" voglia catturarti dal marciapiede per portarti nelle sue fitte trame. Entro. Il primo colpo d'occhio è un corto circuito. Non so dove guardare, ogni spazio è occupato da stampe, dipinti, video-installazioni. E' come ritrovarsi, dopo la fame, davanti ad una tavola imbandita e portarsi tutto, bulimicamente, alla bocca. Scelgo un punto e parto. E' una foglia di marijuana con la scritta ROMA; campeggia dietro il pannello della video installazione "More Pineapple", in cui James celebra uno dei ruoli che – evidentemente – più ama della sua carriera. Lì vicino, un tributo a "127 Ore" e il video di "The Death of Nathalie Wood", ma è "Woman's World" ad attirare la mia attenzione, con due schermi che trasmettono qualcosa che non riconosco. Ricordate questa foto? Ecco. Nell'altro video, James, vestito da donna, con lunga parrucca nera e una frangetta che gli incornicia il volto con barba incolta, viene intervistato mentre si alternano immagini di casalinghe anni '50. Purtroppo è molto difficile sentire il contenuto dei video: il volume è basso e la sala inizia a riempirsi di persone. Il vociare copre l'audio. Tutt'intorno i lavori nati negli ultimi due anni tra set, stanze d'albergo e altre location improvvisate: Spiderman, Gucci, Spring Breakers, Venezia, Sean Penn, Harvey Milk, appunti di lavoro, pensieri, incontri, stampa spazzatura, gatti, animali, sesso, Oz, l'infanzia. Per chi lo segue, trovare connessioni e riferimenti diventa uno stimolante passatempo. La seconda sala, sempre immersa in questo incredibile diario visivo, contiene altre due video installazioni: "Franco/Ramirez" e "Fucking James Franco". E' quest'ultima ad incuriosire tutti, con James che legge i racconti dell'omonima fan-fiction, mentre gli altri schermi proiettano le parole trasformate in immagini. Vediamo James Franco scopare con James Franco, fare sesso orale con Spiderman… ma il video più divertente è la televendita fetish dove, vestito con una tuta in latex, vende pezzi di sè tra fruste e dildo oversize. Superate le due sale principali, uno stretto corridoio conduce alla parte finale della mostra. Funziona da camera di decompressione. C'è esposto il quadro "James Franco The Thinker", che riporta un articolo dove si elencano i suoi mille volti. Visto ciò che lo precede, sembra quasi che James voglia unirsi al pubblico nel chiedersi chi è realmente "James Franco". Superato il corridoio, l'iperstimolazione visiva lascia spazio alla penombra e a qualcosa di più profondo. La "Crystal Temple" è allestita con autoritratti di Oz e un video in cui James legge "The Crystal Temple of Addiction" mentre scorrono le immagini di un matrimonio crepuscolare. La dimensione è intima, personale. E' come lasciarsi alle spalle il personaggio pubblico per connettersi con la persona. Segue la "cow room", una sala completamente al buio da cui proviene una musica assordante. Ad illuminarla solo il fascio di un proiettore che rimanda le immagini di "Cattle", il video già presente in "Rebel" dove vengono castrati alcuni tori. Intorno, ritratti di mucche e le stampe che caratterizzano l'intera mostra. Vengo colpito in particolare da una, dedicata a Wes Anderson. L'impressione è quella di essere trasportati in una dimensione inconscia, tra natura umana e desideri inconfessati. Rimango lì dentro per almeno dieci minuti prima di ritornare alla luce delle sale principali.

Mentre torno indietro incrocio Anna Kooris e capisco che James è arrivato. E infatti eccolo lì, appoggiato ad una delle colonne della sala che parla con la curatrice della mostra. E' il James che conosciamo, assorto nella conversazione, che gesticola freneticamente e porta gli occhi verso punti non identificati in cerca delle parole giuste. Sembra sia lì da sempre. Nel frattempo realizzo che è già passata un'ora e mezza, ma riprendo il giro a "Gay Town" alla ricerca di nuove sfumature. Arrivano Douglas Gordon, Henry Hopper e il "nostro" Marco Muller, mentre il posto si riempie sempre di più. Vorrei strappare uno dei giubbotti Gucci dai quadri, ma non mi sembra il caso di chiudere la serata con un arresto, poi devo ancora salutare James. Nel frattempo, si è formata una fila di persone munite di macchine digitali e cellulari, ma la situazione è comunque tranquilla. Lui come sempre accoglie tutti con un sorriso, disponibile a qualsiasi richiesta. Ho con me Palo Alto: "Hey man, how you doing?", dice stringendomi la mano. "Hi James! I absolutely love all of this!" Il resto sono minuti in cui mi chiede da quale parte dell'Italia arrivo, in cui si porta la mano al cuore quando nomino Marina Abramovic, in cui si illumina quando lo ringrazio per avere condiviso una mostra così "personale". "It's like to be in your mind!" "Oh yeah, you know… my mind, my world…" Ci parliamo nell'orecchio per sentirci. Vede che ho in mano il libro e mi chiede se voglio che lo firmi. L'attimo dopo ho una dedica con l'inconfondibile faccina/firma che campeggia anche in molte delle opere della mostra. Lo saluto e mi ringrazia "Thanks for being here [dice il mio nome]!" E' incredibile come ogni incontro diventi unico. Emozionante incontrarlo in un contesto non prettamente cinematografico e vedere in lui la tensione del debutto, un'emozione diversa sul suo volto. Continuo il mio giro, mentre dopo un po' va via e il pubblico defluisce. Mi soffermo ancora sui ritratti in bianco e nero: splendidi quello della squadra di canoa polo della Palo Alto High e il primo piano di Ted, suo padre. Sto per uscire, ma c'è il tempo per un altro incontro: Travis Mathews. Gli dico che non vedo l'ora di vedere Interior. Leather Bar., le mie impressioni sulla mostra e che vengo dall'Italia. A quel punto mi ferma e dice: "Hey, are you the guy behind that italian James site?". Rido, annuendo. "Oh cool!! I wasn’t sure it was you!". Mi invita al party che si terrà al Ficken 3000 dopo la premiere di Interior. Leather Bar. di lunedi. Purtroppo non sono riuscito ad andare. Ma questa è un'altra storia.