di Chiara Fasano
"Life's but a walking shadow […] / […] It is a tale / told by an idiot, full of sound and fury / signifying nothing." "La vita non è che un'ombra che cammina […] / […] un racconto / narrato da un idiota, pieno di urlo e furore / che non significa niente."
Quell'urlo e quel furore di cui parlava il re di Scozia Macbeth nel monologo più famoso della tragedia shakespeariana hanno dato il titolo all'omonimo romanzo dello scrittore americano William Faulkner, il quale voleva, così, sottolineare lo stesso pensiero del drammaturgo inglese e cioè che per quanto gli uomini e le loro vite siano ordinari, piccoli, effimeri in rapporto all'immensità del tempo e dello spazio, in quel misero tempo in cui è dato loro di vivere, sono travolti da vortici di accadimenti, da uragani di situazioni e di rapporti umani, da quello stesso urlo e quel furore che fanno di ogni irrilevante piccola vita un'esperienza epica. Qui sta la grandezza di William Faulkner, che come Shakespeare, raccontava di uomini e gesti quotidiani, ma con una scrittura in grado di elevare quelle storie ad un valore assoluto, universale, eterno.
E ha fatto bene James Franco a riportare quei versi del Macbeth in apertura del suo adattamento cinematografico del romanzo di Faulkner, presentato alla 71° Mostra del Cinema di Venezia, come fosse un avvertimento per lo spettatore: attenzione a quello che stiamo per mostrarvi, non fermatevi alla superficie della vicenda, elevatevi insieme a lei. Non a caso Franco, in conferenza stampa, ha detto che quando pensa al romanzo di Faulkner non gli viene in mente tanto la trama, il cosa, ma il come, il modo in cui è stata elaborata.
La storia di partenza è quella di una famiglia americana del Mississippi della fine degli anni Venti, un tempo aristocratica e istruita, ma ora in decadenza, un po' per la crisi economica, un po' per eventi interni al nucleo familiare: il ritardo mentale di uno dei figli, Benjy (interpretato nel film da James Franco), il suicidio di quello più promettente, lo studente di Harvard, Quentin (Jacob Loeb), la scandalosa gravidanza dell'unica figlia, Caddy (Ahna O'Reilly), costretta ad abbandonare la sua bambina alla nonna e al terzo figlio, il represso e violento Jason (Scott Haze). Nel romanzo, la vicenda non è raccontata da un freddo e obiettivo narratore esterno, ma è divisa in quattro capitoli, ciascuno dei quali ha un protagonista, rispettivamente Benjy, Quentin, Jason e la serva Dilsey ed è attraverso i loro occhi, i loro pensieri, i loro ricordi, i loro flussi di coscienza, che si va progressivamente a conoscere la storia. James Franco ha coraggiosamente scelto di seguire la stessa struttura del romanzo, dividendo il film questa volta in tre capitoli ("ìBenjy", "Quentin", "Jason"), e quindi narrando a partire da tre prospettive. Ma c'è di più: come Faulkner con i suoi lettori, Franco proibisce allo spettatore di restare comodamente seduto in poltrona a guardare la storia svilupparsi davanti ai suoi occhi. Franco, come Faulkner, chiede allo spettatore di partecipare attivamente ai fatti, guardare e ricostruire gli eventi con gli occhi dei personaggi, introdursi nei loro ricordi, elaborare i loro pensieri, così sarà egli stesso a mettere insieme, pian piano, le tessere di quello che sarà il mosaico finale. Solo allora potrà tornare sulla poltrona, guardare il mosaico finito a distanza e ammettere di aver capito, che è tutto molto semplice, che quella storia è la sua storia, perché in questa vita cosa c'è di più prezioso dei legami con le persone a cui teniamo più che a noi stessi? Cosa ci distrugge di più del vederci strappato via qualcosa di estremamente importante? Cosa ci annienta di più di quando perdiamo tutto quello che, di fatto, ci teneva in vita? Così noi siamo Benjy, quando ricorda con confusa nostalgia gli odori del passato; siamo Quentin quando si strugge di gelosia, invidia, angoscia e amore estremo; siamo umani, terreni e colpevoli nostro malgrado tanto quanto Caddy; abbiamo negli occhi la stessa disperazione di Jason quando cerca con le ultimissime forze di aggrapparsi a quel poco che gli resta quando ormai ha perso tutto. Capiamo così che nulla è ordinario, banale o irrilevante nelle nostre piccole vite. Che ogni piccola vita è travolta dall’urlo e dal furore. Che ogni piccola vita è epica.
Faulkner si occupò anche di cinema e sarebbe stato fiero di questo adattamento, forte di una regia solida e consapevole, di una perfetta ricostruzione storica, di un uso sapiente della fotografia che scandisce i salti temporali, di un cast in stato di grazia (Scott Haze e Ahna O'Reilly un gradino sopra gli altri) e che ha come pregio maggiore il rispetto profondo nei confronti del materiale originario e la fedeltà al suo spirito.
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