In occasione dell'apertura della mostra "Fat Squirrel", al Siegfried Contemporary di Londra (visite su prenotazione), pubblichiamo l'intervista uscita in esclusiva su Dazed.
traduzione di Chiara Fasano
Uomo del rinascimento e cane sciolto di Hollywood, James Franco è un attore di serie A, un regista, uno studente universitario, un insegnante, un poeta, un musicista, un'icona sexy e ora un artista. Performer che sa interpretare il ruolo del 'fattone' e quello dello spaccone con pari credibilità, a 36 anni, Franco è un uomo dalle mille maschere. Nel 2006 ha ripreso a studiare Lettere alla UCLA e ha preso molto seriamente questo impegno – nel 2011 si è persino perso l'annuncio delle nomination agli Oscar (nonostante fosse uno dei favoriti) per non mancare a lezione. Ora, a poche settimane dal conseguimento del PhD in Letteratura Inglese, è chiaro che l'intellettuale di Hollywood non ne ha mai abbastanza.
Mentre si prepara al lancio della sua ultima serie di dipinti, in una mostra chiamata Fat Squirrel, incontriamo il protagonista della nostra copertina di dicembre 2013 al Siegfried Contemporary Private Showroom nel West London per scoprirne di più. Indossa una camicia rossa Lumberjack, jeans sbiaditi e giacca di pelle e sfoggia una testa appena rasata e i suoi baffi marchio di fabbrica. Mentre si adagia su una chaise longue e sorseggia il suo espresso nero (nonostante abbia vestito i panni dello 'fattone' Saul Silver in Pineapple Express (2008), Franco non beve né fuma), conversiamo di cinema, università e del tribunale e delle tribolazioni dei social media.
Cos'ha inspirato questa mostra?
All'inizio dell'anno ho allestito una mostra a New York e sebbene non avessi letto nessuna critica, sapevo che ne parlavano malissimo. Sentivo nell'aria la tempesta perfetta: "Oh, un attore che si mette a fare arte". Questa mostra era, nella sua totalità, una citazione a una delle divinità di Hollywood, Cindy Sherman. Così ho riflettuto sul fatto che avessi un mucchio di altre opere che non facevano riferimento a nessun altro artista – si trattava del puro e semplice atto del dipingere. Questa mostra è solo di dipinti, il che non mi accadeva da quando ero davvero molto giovane – dipingo da quando andavo al liceo.
I dipinti sono quasi infantili – cosa rappresentano secondo te?
Io credo che uno dei miei grandi temi sia l'infanzia e l'adolescenza, perché sono periodi talmente importanti e formativi. Torno sempre a quelle due epoche della mia vita nei miei scritti e nella mia arte. Almeno, per me sono importanti. È stato allora che ho cominciato ad interessarmi a tutto ciò in cui sono interessato oggi. È lì che è stato piantato il seme di tutto ciò che mi ha formato o di quello contro cui mi sono ribellato. È in quel periodo che tutto comincia a manifestarsi ai tuoi occhi. Con questi dipinti – come hai detto tu, in modo infantile – ho fatto riferimento a quell’epoca.
E gli animali? Ti consideri un amante degli animali?
Sì, ma non in quel senso. [ride] Se avessi fatto ritratti di persone, l'attenzione sarebbe concentrata su chi sono quelle persone, ma se si tratta di animali, il soggetto è più difficile da criticare perché gli animali sono innocenti.
Mi puoi guidare attraverso le tre sezioni di questa mostra?
Tutti questi dipinti sono stati generati in modo diverso. Alcuni li ho realizzati io con le mie mani e altri in parte sono stati fatti da un pittore di animali – una persona che si guadagna da vivere dipingendo animali – a cui ho commissionato il lavoro e sui cui disegni ho dipinto. Altri sono collage di libri per bambini e immagini che ho preso e sui cui ho dipinto.
Che influenza ha avuto sulla tua arte la tua esperienza nel cinema?
La mia arte è un risultato del mio lavoro nel cinema. Fare film è un processo collaborativo. Ci sono talmente tanti dipartimenti e tante persone che lavorano a sezioni diverse. Io ho collaborato molto con artisti. Per Rebel, la mia mostra al MOCA, ho lavorato con Paul McCarthy, Ed Ruscha, Douglas Gordon, Aaron Young e Terry Richardson e ho recitato nei video di Ryan Trecartin. C'era qualcosa di diverso nella collaborazione artistica e in quella che ha luogo sul set di un film. Forse perché il cinema ha già i suoi ruoli ben definiti. I sindacati hanno combattuto per anni per il riconoscimento di quei ruoli; gli autori hanno il compito di fare una cosa, ma chi riscrive i dialoghi non ha lo stesso credito. Nel cinema tutto è stabilito a priori, mentre nel mondo dell'arte non è così.
Ma questa è una mostra tutta tua – come ci si sente?
Ho fatto tante cose e nonostante mi fosse piaciuto molto, sentivo che c'era qualcosa di strano. Mi dicevo, "Guarda, hai collaborato con così tanti artisti. Ti ha aiutato a farti strada nel mondo dell'arte." Quando penso di aver lavorato con Paul McCarthy, nella mia mente mi dicevo, "Oh, sì, sarà un mio protettore!" Anche se non è che funzioni proprio così. Dopo un po' ho pensato, "è ora che cominci a lavorare per conto tuo e non ti curi delle critiche o del fatto che la gente ti veda come un attore con un secondo lavoro nel mondo dell'arte". Ho studiato arte. Ho lavorato proprio come tutti gli altri studenti, quindi so di avere le competenze giuste. Ma detto questo, sono ancora abituato ad un certo livello di collaborazione, è così che amo lavorare. Così, anche se da una parte, le collaborazioni in questi dipinti sono meno evidenti, io le vedo ancora così, o come ibridi o come collage.
Com'è tornare a studiare e rivivere quel rito di passaggio?
C’è una cosa che ho amato del tornare a studiare. In effetti, ne stavo giusto parlando con un giovane collezionista al piano di sotto. Ricordavo di avere una collezione d’arte niente male, ma quando sono tornato a studiare non potevo lavorare più allo stesso numero di film a cui lavoravo prima, così il mio commercialista mi fece vendere tutte quelle opere!
Lo studio dev'essere stato molto importante per te?
Sì, è stato importante. Sapevo anche che tornare a studiare sarebbe diventata la mia priorità. Avevo due o tre anni in cui concentrarmi su quello che stavo facendo perché avevo scelto di dedicarmici esclusivamente. Molti dei miei colleghi studiavano e avevano un lavoro a tempo pieno, ma io avevo la fortuna di non avere un lavoro perché avevo già una carriera. Invece di un lavoro, ho potuto iscrivermi a più di un'università. Era il mio momento per affrontare seriamente tutte quelle altre cose a cui ero interessato.
A che punto sei con il tuo PhD?
Ci sto lavorando da diverso tempo – ci vuole un po'! E' in Letteratura Inglese. Ho finito quasi tutto, mi manca la tesi.
Diresti che lo fai per creare un distacco con la tua carriera nel cinema?
Una delle chiavi per la mia carriera o per come sono stato in grado di fare tutte queste cose insieme è l'equilibro. Credo di aver avuto la fortuna di amare i miei film che, di fatto, hanno avuto successo, come quelli con Seth [Rogen]. Spesso sono commedie stravaganti e sono film piuttosto importanti da un lato, diciamo, satirico. E quel lavoro mi permette di fare altri tipi di lavoro. Me ne dà il tempo.
Diresti che la tua carriera è quasi secondaria rispetto ai tuoi personali progetti creativi?
Così pare, ma quello che sto cercando di dire è che tutto quel lavoro mi dà un certo status commerciale che mi permette di muovermi in altri ambienti. Ma se tutto ciò che avessi fossero i miei film, mi considererei già fortunato e ne sarei grato.
La tua esperienza come celebrità dà forma al tuo lavoro?
Sì, ma non in modo gratuito. Quasi in maniera universale. Il modo in cui viviamo oggi, come la gente usa i social media si avvicina sempre di più al modo in cui già vivono le celebrità. Ora la tua vita è sotto gli occhi di tutti, siamo tutti spiati. La gente vede quello che fai in ogni momento. È lì che stiamo andando, così se realizzo dei lavori basati sulla mia esperienza con la celebrità, di fatto, si tratta di qualcosa di applicabile universalmente, molto più di quanto ci si aspetti. Non parlo solo di com'è essere una celebrità, ma di come tutti noi viviamo oggi.
Una volta hai detto qualcosa sul potere dell'essere esposti oggi…
Da una parte è ancora strano per me. Se vai sul mio Instagram, si capisce che non prendo sul serio quell'aspetto. Ma dall'altra, è tutto molto serio. La popolarità è una delle principali valute correnti oggi. Quando hai quel numero di follower – come i miei milioni – le aziende che vogliono fare affari con me prendono la cosa molto sul serio. Ho appena fatto una pubblicità per Verizon e da contratto, devo postare un certo numero di cose sui miei social media. Così tutte le mie cretinate di Instagram, cose con cui io mi diverto, oggi hanno potere contrattuale e sono qualcosa di molto concreto.
Trovi opprimente o liberatorio il dover mantenere una certa presenza online?
I social media sono divertenti – è il solito vecchio gioco per cui devi equilibrare quello che la gente vuole con quello che tu vuoi esprimere. Io esprimo in maggior misura quello che io voglio e quello di cui voglio parlare. Avrei più follower se postassi bellissime mie foto ogni tre o quattro giorni. Probabilmente avrei il doppio di follower, ma non voglio un account così – sarebbe noioso per me. Supererei il limite, ma poi mi verrebbe rinfacciato e rimproverato. Se fai tante cose, impari anche che c'è un cerchio in cui dover restare. Nel Mago di Oz della Disney, non puoi spingerti più di tanto, è un film per famiglie. Invece qui, in questa galleria, posso fare quello che voglio. Impari in quale contesto poter esprimere determinate cose.
Hai fatto un po' di tutto, ma dove ti senti più felice?
Non so dire cosa sia più importante. Credo che il modo in cui la mia carriera e la mia identità si sono sviluppate sia importante in egual misura. In ogni programma accademico ti dicono che ti insegnano a trovare la tua voce, le tue tematiche, il tuo essere. Quello che dici e come lo dici è unicamente tuo. Il mio "essere" è un po’ a Hollywood e un po' in questi altri mondi e, se li metto insieme, quella è la mia unica posizione. Ci sono tanti artisti che usano il cinema come soggetto o ispirazione, ma non molti di questi artisti hanno una carriera nel cinema mainstream.