venerdì 24 maggio 2013

'Leviathan,' I Love You



di James Franco 

Un giovedì sera, il teatro Music Hall di Beverly Hills sembrava vuoto. Sono arrivato un'ora prima per lo spettacolo delle 22. Proiettavano Leviathan. Ci sono andato pensando dovesse essere un poetico documentario sulla vita dei pescatori. 

Prima del film mi sono seduto nel foyer e ho letto Extra Lives: Why Video Games Matter. Ad un certo punto è entrata una folla di donne israeliane e ha coperto i Daft Punk che suonavano nelle mie cuffie. Doveva essere un film veramente speciale. E' stato allora che ho notato un poster del Jewish Film Festival che pubblicizzava una serie di incontri con registi, rappresentati ognuno su una punta della Stella di Davide. Al di sotto c'era un altro tipo di stella.

La persona con cui avevo appuntamento è arrivata alle dieci. Siamo entrati nella sala tutt'altro che vuota e ci siamo seduti in fondo, perché io mi siedo sempre lì. Il film inizia con una solenne epigrafe dal Libro di Giobbe, qualcosa su "l'abisso coperto di canizie". Ero già conquistato.

Io sono il più grande fan di Moby Dick e questo è un film che conta su riferimenti biblici mentre cattura la vita dei pescatori con uno sguardo imperturbabile. E' un Melville dei giorni nostri, almeno quello dei capitoli non narrativi che ritraggono la vita dei cacciatori di balene attraverso fatti e resoconti non di finzione.

Uno degli aspetti salienti del film è il lavoro delle cineprese. Non ho fatto ricerche su come ci hanno lavorato, ma sembra che abbiano attaccato una serie di telecamere GoPro su ogni parte della nave - incluse le teste dei pescatori, le reti sott'acqua e perfino sui gabbiani. (Immagino che non lo abbiano fatto sul serio, ma l'effetto è proprio quello). Il film comincia nell’oscurità e poi, gradualmente effettua una transizione nella frenetica esplorazione dell’ambiente, sopra e sott'acqua e sopra e sotto coperta. Le riprese iniziali devono essere state fatte con una telecamera legata ad uno dei pescatori, perché l'inquadratura si muove con veloci movimenti intenzionali mentre vengono tirate a bordo le reti.

Poi ci viene presentato il bottino. E' enorme, grottesco, bellissimo. E la precisione e la facilità, data dall'abitudine, con cui i pescatori iniziano a sistemare, a tagliare e a rimuovere le teste dai pesci è ipnotizzante. E' un mattatoio dei mari, ma stranamente non ti far venir voglia di diventare vegetariano come quando invece guardi un macello di bovini o una fabbrica di insaccati in azione. Più che The Jungle sembra la magnetica presentazione di Ahab e della sua truppa mitica. Fate attenzione alle sigarette. Un uomo ne accende due alla volta e ne passa una al suo amico dalla faccia piena di cicatrici. Spostano e fanno dondolare i pesci metre li affettano e ne strappano la carne. Afferrano gli scarti e li buttano via. Poi affettano e tagliano e fanno cadere le teste dagli occhi sgranati sul ponte.

Dopo si vedono queste madri dagli occhi grandi sul pavimento della nave - solo le teste - mentre il mare si agita rabbioso sullo sfondo. Stiamo fissi su queste teste mentre la barca sbatte e si scuote nell’intenso ondeggiare. Le teste carambolano tutt’intorno e poi ci fermiamo e osserviamo: un oracolo privo di vita, forse più facile da guardare perché sono teste di pesci, giochi per gatti. Dopo vengono rigettate tra le onde, ridate in pasto al mare selvaggio.

Pesci morti. Più romantici di mucche morte. E' perché non siamo tanto sensibili alla vista di pesci morti? I ristoranti li servono così e alcuni "vegetariani" (pescetariani?) li mangiano senza problemi. I pesci morti non sono così minacciosi o disgustosi come altre cose morte che mangiamo; piccoli esseri nuotanti da mangiare presi dall’oceano, dall'invisibile vastità. Ma dopo essere stati testimoni dell'immensità di questi oggetti, questi leviatani creati dall'uomo che tirano fuori le loro prede dal mare, ci si può solo chiedere: quanti ne sono rimasti? Com'è possible?

In alcune scene la cinepresa (legata ad una gru?) si tuffa sott'acqua e poi salta fuori in alto nell'aria sopra uno stormo di gabbiani. Voglio dire, cavolo! Com'è possibile? Come hanno fatto a raggiungere questo livello di poesia? Perché, se non altro, questo film esemplifica l'arte delle poesia senza parole, l'arte della poesia attraverso le immagini, l'arte del prendere la vita vera e incorniciarla, giustapporla in modo da renderla più grandiosa della finzione. Regge lo specchio alla natura, ma uno di quelli deformanti e nella sua distorsione rivela una verità più profonda. 

La mia accompagnatrice ha detto che le è venuto il mal di mare a tutti quegli scossoni e movimenti del mare. Ma io voglio tornarci e navigare un'altra volta. Leviathan è l'esempio di dove un documentario riesce ad arrivare se vuole aspirare all'arte. In televisione ormai vediamo di tutto, dai camionisti che viaggiano su strade coperte di ghiaccio a famiglie di cacciatori in azione, ma lì far ridere è un obbligo ad ogni puntata. Invece solo un film può avere l'attenzione a questo genere di lavoro, curarsi dei minimi dettagli importanti. In questo caso si avverte la stessa maestosità, o lo stesso orrore, di qualsiasi episodio raccontato dalla Bibbia.

Il documentario che diventa epica. Questa è la vita. L'uomo contro la natura. Le macchine dell'uomo. L'uomo come maestro del pianeta. L'uomo come devastatore del pianeta. L'uomo come annunciatore dell'apocalisse. Ma è anche bellezza. Mi sono sempre chiesto come la grandezza e l'orrore di Moby Dick possano essere riprodotti in un film o in qualsiasi altra forma, principalmente perché la caccia alle balene oggi è considerato tra i peggiori crimini contro il pianeta. Beh, è così: l'uomo padrone dei mari e del mondo, che compie azioni orribili, coraggiose, impossibili. Perché noi siamo uomini. Abbiamo il bisogno di sopravvivere. E conquistare.

fonte Vice / traduzione Chiara Fasano

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